A volte mi capita di pensare ai reggini come ai cosmonauti della missione Apollo 13. Il loro messaggio d’aiuto è drammaticamente chiaro: “Reggio, abbiamo un problema”.
Il nostro problema è la connessione sentimentale con questa città. Un legame ineludibile. Ne “I fratelli Karamazov”, il padre del piccolo Iljuša, citando la Bibbia, esclama: «Io non mi posso scordate di te, Gerusalemme». Se mi scordassi di Reggio, tutto il mondo mi crollerebbe addosso.
Eppure, “quando sono a Reggio, sento nostalgia di Reggio”, scambiando questa volta la nostra città con la Kyoto di Matsuo Bashō.
Coltivo con Reggio, inevitabilmente, un legame materno. Madre e matrigna. Oggetto d’amore e d’odio, di odiamore, come sempre nei rapporti simbiotici, uterini, originari. Ma io, come tanti, ho lasciato il nido, alla volta di un padre. In cerca di un padre sono i reggini in esilio, di una figura che li riconosca, che li valorizzi, che dia seguito al loro desiderio facendoli sentire desiderati. Reggio, da lontano, in remoto, è diventata per me nostalgia, mancanza, tensione: me ne sono riappropriato lasciandola andare, perché “si ama in assenza”, di più e meglio.
Amo la città che non posso avere. Sono tornato a metà, con un piede a Reggio e l’altro sempre pronto a fuggire.
Mi sento indeciso e indecidibile. Ma forse questa dimensione liminale, questa vita al confine, è l’unica che posso vivere. Dalla madre al padre e ritorno, certo, ma, tornando a Reggio, non l’ho più vista come figura materna. Riconosco in lei, finalmente, mia figlia. Forse è questo che ogni esule dovrebbe fare: capovolgere la famiglia, sovvertirla. Capire che la madre adesso è figlia, che non è invecchiata, ma è piccola, giovane, ammantata di una sua innocenza. Reggio bambina è da proteggere, va aiutata a crescere.
E dallo spazio mi sento tornato all’antico, all’inevitabile mito di Ulisse. Storia di nostos, di romitaggio, di erranza, un po’ imposta dagli eventi, un po’ voluta. Consegnarsi al mare aperto, non riuscire a tornare perché una parte di noi non lo vuole, eppure continuare a desiderare: Itaca, Penelope, Telemaco, l’amore.
Telemaco è chi resta in attesa, a Reggio come ad Itaca, in una veglia operosa, che non prolunghi indefinitamente la notte dei Proci.
I reggini, tanti Ulisse e tantissimi Telemaco, sanno che la notte non finisce da sola: che l’alba va cercata, perché arrivi a rischiarare la vita.
di Fabio Domenico Palumbo