I centri interni si spopolarono nel secolo XX: per condizioni economiche avverse (emigrazione); per la necessità di vicinanza ai servizi di trasporti, quasi interamente allocati sulla costa; per scelte economiche (fabbriche e non agricoltura); per opinioni prevalenti nella cultura dominante (agglomerati urbani e non decentramento); per conseguente disinteresse dei gestori del potere. Agli inizi del secolo XXI le più evidenti criticità erano: decrescita delle nascite fin quasi al loro azzeramento; conseguente assenza dei servizi scolastici primari; crescente assenza degli altri servizi pubblici, particolarmente gravi quelle delle Poste italiane e delle farmacie; appiattimento, se non totale annientamento, di ogni creazione culturale locale; generalizzazione dell’economia assistenziale, senza vita economica propria; gravi difficoltà di collegamento per la carenza o totale assenza dei trasporti; generale asservimento delle classi dirigenti locali alle famiglie mafiose, fenomeno in crescita anche e soprattutto nei centri urbani maggiori, ma in maniera meno totalizzante che in quelli minori.
Oggi molte tendenze si sono trasformate o capovolte: l’emigrazione perdura, ma soprattutto di giovani scolarizzati anche dei centri maggiori, meno di contadini e braccianti; la totalità, quasi, degli abitanti possiede trasporti privati capaci di affrontare i dissesti generalizzati delle strade; l’attenzione all’economia agricola è divenuta quasi predominante; si ricercano le culture locali per cresciuto interesse verso i centri minori; alcuni servizi pubblici possono essere elargiti a distanza, anche se con difficoltà di uso, tramite internet; la cultura di massa, quale che sia il suo valore, è resa comune a tutti tramite i social; alcuni giovani riescono a consociarsi per attività economiche disparate con sede nei centri interni, gestite, più volte egregiamente, con i computer. Particolari attività economiche di questi centri sono quelle dell’ospitalità diffusa, con B/B e trattorie, e delle guide per il trekking, in crescente aumento. Le residue criticità maggiori sono lo spopolamento, anche se in attenuazione; la carenza delle farmacie e dei servizi ospedalieri: fenomeno, questo, che opprime tutta la regione; l’insufficienza dei servizi scolastici; la grande inadeguatezza, per ignoranza e troppo spesso corruzione o asservimento alla mafia, di chi gestisce la cosa pubblica; l’imbecillità dei delinquenti incendiari che credono di trarre profitto dalle devastazioni da loro provocate.
Le risorse sono molteplici e sempre più apprezzate dalla cultura corrente e dall’attuale moda di ricercare ed ammirare i borghi. Indico, innanzi tutto, la possibilità di fare comunità, mentre negli agglomerati maggiori cresce l’individualismo e la solitudine dei singoli; altro valore, grandissimo, è il diffuso contatto con la natura e dunque il rispettoso colloquio con essa, anche in quest’epoca in cui l’ambiente è comunemente ritenuto come inerte contenitore; sono ancora frequenti gli orti familiari, che forniscono cibo di cui si conosce ogni provenienza a metro zero. Un valore, che un centro come quello di Reggio ormai disconosce e distrugge, è il silenzio, che invita alla riflessione e alla pace. Purtroppo alcuni valori, che sono appannaggio dei centri interni italiani e vengono gelosamente protetti, perché costituiscono uno dei motivi più eloquenti della loro bellezza, nei nostri centri del reggino sono stati cancellati: essi in maggioranza non sono più né pittoreschi né attraenti, perché sono stati resi brutti e banali da una edilizia ignorante e aggressiva, per la colpevole assenza di qualunque controllo urbanistico e paesaggistico.
Attualmente nei centri interni si stanno verificando eventi culturali ed artistici molteplici e talvolta anche di pregevole qualità. Io credo che questa sia la loro vocazione più bella e sarebbe anche remunerativa se si potessero realizzare, come già alcune volte avviene, luoghi di ospitalità per giovani, per artisti, per studiosi, per appassionati della natura, per persone in cerca di silenzio e di conversazioni affettuose; l’affetto, infatti, è un valore molto frequente nel nostro contesto. Si potrebbe pensare anche agli anziani bisognosi di cure, se ci fosse un efficiente presidio sanitario. Sogno che si possano affidare a gruppi di giovani la cura e la gestione di questi eventi; che li amministrino, che inventino nuove e belle realizzazioni, che aiutino gli attuali anziani a interloquire con i computer.
Permettetemi di aggiungere alcune considerazioni personali. In questi giorni gli abitanti del centro urbano di Reggio, e non solo loro, hanno mostrato grande interesse e ammirazione per i Bronzi, in risposta alla risonanza mediatica delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della loro emersione dal fondo marino. Questi grandi capolavori non sono calabresi e si trovano a Reggio per il naufragio della nave che doveva recapitare altrove le statue prelevate in Grecia. I beni culturali calabresi non sono capolavori; essi, però, parlano un linguaggio affascinante perché umile, artigianale e pertanto capace di narrare la semplice, travagliata, lunghissima storia della nostra gente, vissuta molto spesso tramite le famiglie. Un esempio bellissimo è l’affresco del Pantocratore di Santo Niceto, di recente riportato sapientemente alla vita dall’abile mano della benemerita professoressa Anna Arcudi e delle sue giovani allieve. È vero che per la solitudine e l’insignificanza in cui si trovava sommerso nel secolo scorso, qualcuno, circa quarant’anni fa, aveva tentato di distruggerlo a martellate, ma molti secoli prima, quando era sito nella calotta absidale di una chiesa di villaggio, realizzato molto probabilmente a spese dei fedeli, era oggetto di grande e duratura devozione, che chi oggi lo contempla avverte con certezza, perché questo manufatto, anche se capovolto, ancora prega ed invita a pregare. Tutte le volte che questi messaggi del passato vengono riconosciuti dalle comunità dei centri interni (occasione, purtroppo, non frequente), diventano oggetto di venerazione e di rispetto. Ricordo ancora quando, più di 50 anni fa, giunsi a Mosorrofa per conoscere i suoi tesori e fui accompagnato da un folto gruppo di persone entusiaste per ammirare l’ulivo secolare di contrada U Maìsciu che era capace di ospitare nel suo seno intiere famiglie. Non so se questo monumento botanico e l’entusiasmo sopravvivano, ma certo i vicini ruderi della defunta città di Sant’Agata, continuano ad essere vivace oggetto di ricordo collettivo, di visite appassionate e di studio. La memoria apporta la consapevolezza della propria dignità comunitaria, capace di vincere su ogni possibile ferita sociale. Essa è l’unica realtà temporale di cui disponiamo. Purtroppo, fra i cittadini di Reggio centro, a parte l’attuale circostanza dei Bronzi, la celebrazione della memoria si manifesta soltanto nella venerazione della Madonna della Consolazione e nel ricordo grato della sua costante presenza di generazione in generazione da quasi mezzo millennio. Ogni altro resto del loro passato, anche se oggetto di studio, non parla più: né le mura greche, né i bagni tardo antichi, né quello spaccato ricchissimo di storia millenaria che risiede sotto il pavimento di Piazza Italia, né i ruderi che sono stati scoperti e poi ricoperti a Piazza Garibaldi, né l’antica tomba di via Demetrio Tripepi a cui fanno compagnia solo i rifiuti, né i ruderi dell’area Griso-Labbozzetta, né l’Odeon nascosto in uno scantinato e nemmeno il Castello. Essi non sono amati e, senza fascino, scompaiono nel silenzio. I cittadini dei centri minori insegnino, dunque, agli abitanti di Reggio centro il valore e il linguaggio della memoria, celebrandola nelle loro conversazioni e nelle loro ricorrenze: creerebbero, così, una scuola di civiltà da ascrivere fra le più importanti e più benemerite loro risorse.
Domenico Minuto, 27.8.22