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La Strada e Riabitare Reggio sulla “zona rossa” per la Calabria: “Le cause profonde della chiusura vanno ricercate nelle disuguaglianze interne al Paese. La sanità calabrese va ripensata radicalmente”

L’articolo 32 della Costituzione Italiana sancisce il diritto universale e inalienabile alla salute. Può sembrare ovvio, può sembrare scontato, eppure così non è, e chi vive in Calabria lo sa bene. La Calabria, una fra le regioni italiane che registrano attualmente il numero più basso di contagi, all’interno del dpcm entrato in vigore venerdì 6 novembre 2020, viene considerata “zona rossa”, esattamente al pari di regioni come la Lombardia, il Piemonte, la Val d’Aosta, in cui un tessuto economico estremamente dinamico e la presenza oggettiva di infrastrutture e interconnessioni ha, purtroppo, come un rovescio triste della medaglia, favorito il diffondersi della pandemia. Ecco, qui in Calabria invece no. Qui diventeremo zona rossa non per l’abbondanza di infrastrutture, ma per l’assenza delle strutture necessarie: quelle sanitarie e ospedaliere.

Questo ci sorprende? Lo stiamo scoprendo oggi? Certamente no.

Tra le statistiche sui livelli di assistenza sanitaria delle regioni italiane, la Calabria si colloca stabilmente all’ultimo posto ormai da diversi anni. E questo dopo un lunghissimo commissariamento che non è riuscito a curare un sistema malato, ma con una politica spietata di tagli lo ha soltanto condotto all’agonia. Negli ultimi 10 anni il personale è diminuito di oltre 3.700 unità a causa del blocco del turnover, mentre negli ultimi 20 anni si è ridotto di circa il 60% il numero dei posti letto presenti negli ospedali calabresi (2,5 posti letto ogni mille abitanti rispetto ai 4 di media nazionale). La sola città metropolitana di Reggio Calabria ha assistito alla chiusura di cinque ospedali (Oppido, Palmi, Scilla, Siderno, Taurianova), oggi più che mai necessari, anche come residenze Covid per i malati non necessitanti cure ospedaliere.

E poi, tre Asp commissariate per mafia e un cospicuo finanziamento statale erogato nell’anno in corso che la Regione Calabria, semplicemente, non è stata in grado di impiegare, per intoppi procedurali e per mancanza di progettazione. Non si può dunque non sottolineare il fallimento, al contempo, della gestione commissariale, e dell’istituzione regionale nel compito fondamentale della tutela della salute pubblica. Il cortocircuito burocratico tra struttura commissariale e dipartimento tutela della salute della Regione ha avuto, come salta agli occhi drammaticamente in questi giorni, conseguenze nefaste.

Altrove in Italia si tornerà in regime di lockdown perché un tessuto economico iperdinamico diventa un attrattore naturale per interscambi e connessioni che vanno ben oltre i confini regionali. In Calabria dobbiamo chiudere perché siamo troppo poveri e quindi rischiamo, rischiamo davvero. Se l’isolamento, tra gli altri fattori, ci ha “graziati” nel corso della prima ondata, la fragilità infrastrutturale e organizzativa ci condannano in questa fase di recrudescenza pandemica.

L’identificazione delle zone rosse all’interno del dpcm che entrerà in vigore domani, venerdì 6 novembre 2020, mette davanti agli occhi di tutti, con brutalità cristallina, quanto siano profonde le disuguaglianze interne al nostro Paese. È abbastanza perché chi ci amministra, a tutti i livelli, si senta responsabile del disastro e non dorma la notte per le sue conseguenze. Con la proclamazione delle zone rosse, è sancito in modo ufficiale, “istituzionale”, un rapporto tra regioni, quindi tra cittadine e cittadini, diseguale all’interno dello stesso Paese. Questo è inaccettabile e riguarda, lo ripetiamo, non la chiusura in sé, ma le ragioni che oggi la rendono necessaria. I movimenti civici La Strada e Riabitare Reggio intendono farsi promotori di questa istanza e rappresentarla, con tenacia e serietà, all’interno delle sedi opportune: nelle piazze e con il coinvolgimento della società civile, ovviamente nei tempi e nei modi consentiti, e all’interno del consiglio comunale attraverso il consigliere Saverio Pazzano.

 

Solo in occasione di questa pandemia abbiamo potuto comprendere meglio che la salute costituisce un diritto primario e prioritario su altri e quindi che, se la Sanità non funziona, immediatamente si inceppa tutto l’ingranaggio che sta alla base dei diritti, della tenuta sociale e del precario equilibrio economico tipico dei nostri tempi. E abbiamo anche inteso bene che, se la Sanità non funziona, è perché in una Regione manca da tempo una classe politica capace, e forse disinteressata rispetto alla questione.

Sono decenni, infatti, che in Calabria la sanità costituisce una vena da cui attingere da parte di politici e amici affaristi, a discapito delle cittadine e dei cittadini, costretti ineluttabilmente ad un turismo sanitario, che non fa che rimpinguare le casse di regioni quali Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana. La mobilità sanitaria finisce così per acuire le disuguaglianze tra le diverse aree del paese, oltreché comportare incalcolabili costi esistenziali.

Mentre in Calabria non vengono più garantiti neppure i livelli minimi di assistenza (LEA), Spirlì sospende arbitrariamente, all’interno delle strutture ospedaliere pubbliche, le attività ambulatoriali, le visite e le operazioni “non urgenti” e la sanità va incontro ad una nuova stagione commissariale (dopo oltre 10 anni di commissariamento con tagli e blocco di assunzioni, tre ASP commissariate per mafia e sommerse dai debiti).

La situazione in Calabria è grave quindi non per i dati pandemici, ma soprattutto per un deficit strutturale legato all’immobilismo politico e all’incapacità programmatica di una classe dirigente che non è stata capace neppure di sfruttare i fondi disponibili (in primis gli 86 milioni stanziati dal governo centrale con la legge 60/19 per l’adeguamento delle apparecchiature sanitarie in ospedali e poliambulatori) per far fronte all’emergenza Covid. Catanzaro e Cosenza hanno così in pochi giorni esaurito i loro esigui posti letto nei principali reparti interessati (terapia intensiva, pneumologia e malattie infettive), mentre Reggio temporeggia tra allestimenti improvvisati di reparti speciali e confusione nell’attuazione delle nuove assunzioni stabilite (sarebbe stato senz’altro possibile attingere alle graduatorie dei concorsi già effettuati per personale medico e operatori socio-sanitari).

In tutto questo, anche la valutazione degli indici e il monitoraggio dei dati epidemiologici (che costituiscono alcuni dei fattori determinanti per la definizione di una zona rossa) risultano discutibili, vista l’incapacità del sistema pubblico di tracciare i contagi e l’esecuzione e il processamento della stragrande maggioranza dei test in istituti privati, che non sono tenuti a fornire i dati all’Azienda Sanitaria. Dunque, tracing e testing decisamente fuori controllo nella nostra regione, di qui l’impossibilità di un monitoraggio efficace della reale situazione del contagio.

Quanto al trattamento, al di là delle carenze ospedaliere, si palesa, come a dire il vero in numerose altre regioni italiane, la carenza di servizi domiciliari e di una medicina di prossimità adeguati, con l’impossibilità di provvedere ai bisogni di cure e di assistenza dei pazienti Covid dimessi dalle strutture ospedaliere o mai ospedalizzati. In questo senso, avrebbero dovuto giocare un ruolo fondamentale le Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA) per il servizio domiciliare rivolto ai pazienti Covid-19 non necessitanti di cure ospedaliere.

Le soluzioni dovrebbero essere di veloce implementazione, comprendendo l’attivazione delle 37 USCA previste e ampiamente inattuate, l’adeguamento dei reparti con l’acquisto di nuove apparecchiature e l’assunzione di tutto il personale necessario. Ma ancora più inderogabile è un cambiamento radicale e sistemico della sanità calabrese, non solo a livello organizzativo, ma ancora prima sul piano deontologico.

Auspichiamo in questa emergenza unità istituzionale e collaborazione di tutte le forze politiche a favore di scelte responsabili e concrete, evitando qualsiasi strumentalizzazione anche in vista delle prossime elezioni regionali. Da scongiurare, al contempo, anche la possibilità di indirizzare il malcontento e il malessere attuale verso soluzioni poco ragionate o capri espiatori sbagliati. È meno che mai il tempo delle polemiche sterili e interessate, e più che mai il momento delle scelte dettate dall’interesse primario della comunità. Il diritto alla salute deve essere garantito su tutto il territorio nazionale, al di là delle articolazioni regionali del servizio sanitario, adeguando la nostra regione agli standard qualitativi di cura e assistenza che le cittadine e i cittadini calabresi devono purtroppo ricercare al Centro-Nord. Se qualcosa di buono può venire da questo drammatico momento, è solo il risveglio delle coscienze, la consapevolezza che il cambiamento non può più essere rimandato.

Ufficio stampa

La Strada

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