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È il tempo di curare, di capire, di costruire

solidarietà

Sto in casa, è giusto, è necessario, è il mio dovere di cittadino. Sto in casa come tutte le altre decine di migliaia di cittadini di Reggio, alcuni tornati dal Nord e responsabilmente registratisi, con pochi casi di irresponsabili che certo vanno stigmatizzati e sanzionati, ma non possono essere l’alibi per incrementare il panico e sfociare in un clima sociale da caccia all’untore o di bullizzazione del cittadino che esce per pochi minuti di casa, rispettoso comunque delle ordinanze. Dagli scienziati e dai tecnici -e non dalle fake news- dobbiamo ora trarre tutte le informazioni, le indicazioni e tutti i comportamenti da seguire con pieno rigore. La nostra temporanea rinuncia ad alcune libertà è il più importante segno di libertà che ciascuno di noi possa dare. La libertà di non nuocere all’altro, di contribuire alla causa collettiva della salute pubblica. È il nostro lavoro attuale e lo sarà probabilmente per un tempo che ci sembrerà infinito ma che infinito non è. Coraggio. Dobbiamo chiedere alla politica di contribuire a quella sicurezza sociale per cui noi per primi oggi ci sacrifichiamo, ma dobbiamo pretendere lo faccia senza soffiare sul fuoco già alto del panico né, per contro, sulla banalizzazione della condizione di domiciliazione obbligata in cui dobbiamo responsabilmente vivere. Non sappiamo ancora quanto questa necessaria fase di contenimento sociale durerà, quello che sappiamo è che non ci fa più uguali ma più diseguali. Proprio questo è il momento nel quale comprendere le profonde diseguaglianze sociali che rendono questa quarantena un “problema di classe”. Questo è lo spazio nel quale costruire, dalle macerie di un modello economico iniquo, una società giusta. Più che mai la città diventa lo spazio nel quale compiere questa rivoluzione. La nostra temporanea mobilità bloccata si alleggerirà lentamente in una mobilità controllata nello spazio urbano; mentre continueremo per un po’ a viaggiare sul web, la città sarà tutto il nostro mondo fisico. Siamo davanti alla sfida di riabitarla con contenuti vivi ed egualitari. È qui, in una nuova dimensione municipale, che giocheremo la partita di una società diversa, equa, aperta, plurale, ecologista e progressista.

È dalle fortissime diseguaglianze che dobbiamo partire, in questa fase di emergenza per tamponarle, ma contemporaneamente elaborarle in una riflessione politica che diventi pratica politica. Siamo tutti d’accordo che il virus si propaga facilmente e, in una percentuale per fortuna molto più ridotta, uccide  soprattutto a seguito di comportamenti irresponsabili. Credo che il primo comportamento irresponsabile sia lo smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale e, a cascata, del servizio sanitario territoriale nel quasi più totale silenzio delle maggioranze e delle opposizioni politiche che si sono alternate nell’ultimo decennio. Lo stato di necessità era la spending review, ora che non possiamo più fare riferimento alle “cure migratorie” ci accorgiamo di quanto non serva “conoscere qualcuno”, ma avere cure dignitose e averla per tutte le persone.

La necessità di restare a casa e di non rischiare il contagio ci rende più vicini a tutte quelle persone già più cagionevoli, con sistemi immunitari più deboli. È necessario che allarghiamo lo sguardo, che questa attenzione non diventi l’unica concentrazione. Ci sono -e fanno pienamente parte della nostra comunità, come e più di chi trascorre una quarantena sofferta ma dignitosamente accompagnata dai social, da Netflix e dalla Playstation- decine di senzatetto in città e centinaia di persone che, lavoranti in nero, sono oggi nella difficilissima condizione di non poter acquistare beni di prima necessità e decine di lavoratori e lavoratrici del nostro territorio che non percepiscono stipendio da più di quattro mesi e chissà quante donne e quanti nuclei familiari che vivono situazioni di violenza aggravate dalla attuale coabitazione coatta. Ci sono poi i paria tra chi lavora, coloro che devono portare avanti la carretta e lo fanno nella maggior parte dei casi senza adeguati dispositivi di protezione individuale, perché è sempre più chiaro che la questione di classe è viva ed è rappresentata da tutte quelle persone braccia della produzione, della distribuzione, dei servizi pubblici che rischiano di ammalarsi. Ci sono le centinaia di attività produttive che sono chiuse e che già operavano a stento in un contesto difficilissimo. Ci sono quartieri in cui i problemi di sempre  diventano insormontabili per le persone che ci vivono. Per la quasi maggioranza dei cittadini la sanità e la salute sono stati ad oggi problemi da risolvere privatamente o viaggiando in altre regioni. La comprensione dell’importanza della salute pubblica, finalmente anche da parte delle Istituzioni, deve invitarci a chiedere da adesso -e non per il temporaneo stato d’emergenza- più ospedali, più strumenti, più personale sanitario.

 

Queste disuguaglianze sono da molto tempo le ferite vive di questo territorio: da un lato l’emergenza pandemica (col montare di notizie importanti ma talora ossessive sui numeri del contagio) oscura queste emergenze strutturali, dall’altro getta sale e rende insanabile il loro dolore. Anche questa è salute pubblica. Il momento difficilissimo ci fa vedere in controluce le spaventose ingiustizie del nostro tempo e, per la strutturale condizione del nostro territorio, del nostro contesto.

Qui dobbiamo agire e pensare, da qui dobbiamo ripartire. Non isolarci, non chiuderci. Nella stagione del panico e dell’angoscia occorre riportare le cose alla paura, ossia al rispettoso senso della gravità del momento, ma anche alla precisa definizione delle cose. E alla società che ne verrà fuori, diversa. Che lo vogliamo o no è sempre più il tempo del coraggio.  “Raccatteremo le pietre/e ricominceremo. […] Saremo nuovi/Non saremo nuovi./ Saremo altri, e punto/per punto riedificheremo/il guasto che ora imputiamo a voi” (G. Caproni).            

Saverio Pazzano

 

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