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“Che ci faccio qui, se la vita è altrove?”. La restanza di Vito Teti

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La domanda di Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?, è forse l’interrogativo di fondo del volume di Vito Teti recentemente pubblicato da Einaudi, La restanza.
Una possibile risposta a questo eterno interrogativo arriva erraticamente in vari punti del libro, ma può forse essere condensata nella sofferente constatazione che «la vita è sempre altrove». E in effetti, per me, per la mia generazione, il cuore è sempre altrove.

In questo volume – densissimo, fulminante – si possono trovare molti livelli di lettura, socio-antropologico, ovviamente, filosofico e psicanalitico, certamente, ma la traccia di fondo è quella di un testo esistenziale, profondamente e dolorosamente lirico.
È semplicemente un libro di cui avevamo bisogno. Un testo fondamentale per la mia generazione e per quella successiva, segnata da una diaspora che accomuna chi parte e chi resta, da uno spaesamento insieme spaziale e temporale.
I temi del partire, del tornare, del restare, dunque, come questione generazionale, esistenziale. È il senso di ciò che ci sta accadendo come singoli e come comunità.
Teti ci insegna che esistono due modi di tradire il senso dei luoghi: trasformarli in una reliquia, chiuderli nella teca di un passato mitizzato e arcaico, prigionieri di una retrotopia; o ridurli a non-luoghi, convertirli in un rifugio del pittoresco, in un’immagine oleografica da cartolina illustrata, nella fantasia bucolica dei borghi.
Quest’ultimo termine va tra l’altro fortemente problematizzato, come fatto nel recente volume di Donzelli Editore Contro i borghi, che ospita, tra gli altri, contributi di Vito Teti e Domenico Cersosimo. Uno dei capitoli del volume è significativamente titolato I borghi ai borghesi. Più che di borghesia, oggi c’è bisogno di comunità. Di riabitare i luoghi, per ricostruire le comunità.

Partire, tornare, restare. Quasi un mantra. Ma non si tratta, per Teti, del pensiero nomade in voga a partire dagli anni Settanta; la restanza ci restituisce, infatti, un’anima migrante ma non smarrita, semmai errante.
Come la freccia della lirica di Rilke in esergo al volume, così noi restanti, noi erranti, resistiamo all’impulso del naufragio per essere scoccati con più forza nella deriva, conservando tuttavia la pulsione dell’approdo.
Per il restante, si rende anche necessario mettere da parte qualsiasi concezione statica e monolitica dell’identità. In realtà, facciamo nostro un luogo rinunciando a qualsiasi possesso identitario di esso, riconoscendolo come già sempre perduto. Affidando la sua precarietà alla tenace labilità del nostro abitarlo, a tutto ciò che abbiamo di più caro, ai santi e alle Madonne venuti da lontano ad ammansire draghi e scongiurare terremoti.
Ma si può ancora trovare un modo di rimanere, quando il mondo fuori è disgregato? La risposta è in una dimensione che connette interiorità e mondo esterno, spazio e tempo. Si può praticare una restanza dell’anima. Il genius loci è portarsi dentro un paesaggio, dei legami, una geografia interiore. Ciò che si scioglie fuori, si riannoda dentro.
È qui che si apre la possibilità del ritorno, secondo un significato nuovo della parola “nostalgia”. È come nel testo della canzone La vita nuova di Dimartino, non a caso tratta dall’album Un paese ci vuole:
«I santi persi nel vento / tra i fiori di campagna / cercano la gente che / è andata via / con il freddo negli occhi. / E i figli della nuova Europa / scappati dopo la maturità / ritornano per le vacanze / e non vanno più via».

Chi è perso tra le strade del mondo non prova una versione esclusivamente nostalgica del desiderio, inteso come mancanza lacerante; prova anche, intensamente, un desiderio rivolto al presente.
E in verità, ci dice Teti, anche chi rimane prova dolore per qualcosa di perduto, per la mancanza che scava dentro la sua anima, per l’altrove che abita tutti noi.
La restanza è, perciò, una categoria antropologica dalla forte carica etica. È il compito di abitare un luogo nonostante lo spaesamento che ci abita, nonostante l’esilio cui siamo consegnati.
Riguarda il viaggio da fermo di chi resta e il radicamento di chi parte. Come nei versi di Caproni: «Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai».
La restanza è un lavoro narrativo, la scrittura di vite e di storie in assenza di qualcuno o di qualcosa. È la tensione dell’attesa in cui si inflettono certi angoli del presente.
Ed è proprio a partire da questa inquietudine dei restanti che si può pensare di riabitare un luogo, sottrarlo al preteso immobilismo di una dimensione astorica e inserirlo nel flusso delle immagini-pensiero, delle visioni alimentate dalle lotte, dalle aspirazioni, dalle legittime rivendicazioni delle comunità, dei movimenti, delle associazioni e dei singoli, di tutti coloro che al gesto irriflessivo e all’automatismo dell’abitare oppongono lo sforzo creativo del riabitare i luoghi.
Si può restare solo mettendosi in cammino. Solo restando sulla strada. Per risignificare i luoghi, guardare il familiare con occhi “stranieri”, perturbati e commossi, e «con le stesse scarpe camminare / per diverse strade, / o con diverse scarpe / su una strada sola».
La restanza non è, infatti, una categoria stanziale; è piuttosto un pensiero dinamico, la dialettica dei rimasti e dei partiti. È un pensiero dell’impermanenza, dell’erranza, sul cui risvolto si trova il desiderio di restare.
Il desiderio è sempre girare attorno, ma è girare attorno a qualcosa. Ogni viaggio è attraversato da una deviazione fondamentale, ed è proprio quella deviazione che conduce ogni volta a un punto che osiamo chiamare casa. È forse questo il senso del “radicamento in cammino” di Teti.
Una memoria non cristallizzata, ma capace di rigenerare l’origine. Perché il viaggio riprende sempre, anche da fermi, forse ancor più da fermi, nella tensione dell’incontro con l’Altro.
«Camminare, viaggiare, restare: esserci ed essere insieme, sempre qui, sempre “dentro il luogo”, sempre “fuori luogo”». È questa la risposta itinerante alla domanda fondamentale che ci siam posti insieme, fin dal novembre del 2018: “Che ci faccio qui?”.
Resto in cammino. Resto sulla strada.

 

Fabio Domenico Palumbo
La Strada

 

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